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Alberto Parres: “Oltre lo spazio, dentro il colore”

  • Categoria dell'articolo:interviste

Di Barbara Iacobini – 15 luglio 2007

“Io e la tela, soli, in un dialogo che non si può esprimere a parole, perché è qualcosa che accade a livello sensoriale in una continua costruzione e ricostruzione di senso”. Alberto Parres, pittore spagnolo-africano, ma romano di adozione, ha scelto la pittura come forma di espressione per comunicare con il mondo. Occhi vispi, sguardo vibrante, un marcato accento spagnolo che rende caldo il suo parlare e poi la dinamicità: parla, si muove, va, segue gli allievi, detta i tempi, consiglia, torna, discorre con me, come se ci conoscessimo da sempre. Un uomo che trasmette energia, la stessa che con la mano, attraverso il pennello, fissa sulla tela.

Ciò che cattura delle sue opere sono i colori, energici, cangianti, i veri protagonisti. Cosa si cela dietro questi strati di materia?
Si tratta di una ricerca specifica sul e dentro il colore. Uno studio di stratificazioni cromatiche piuttosto che di colori mescolati insieme. Creo degli strati che piano piano sovrappongo, dentro il rosso c’è il giallo, il blu, il verde. E i colori cambiano, sviluppano vibrazioni che trasmettono emozioni. Una volta ho realizzato due quadri blu che sembravano perfettamente uguali: in uno avevo usato la stratificazione cromatica, l’altro nasceva dalla mescolanza dei colori. Visivamente la differenza non si vedeva, ma si “sentiva” e alle persone piaceva quello con la stratificazione, ne erano attratte senza saperne il perchè.

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L’elemento dominate della sua pittura è rappresentato dall’uso di particolari cromie, ma quale è l’approccio che pratica nella realizzazione di un quadro?
Procedo per approssimazioni successive. La tela bianca da sempre mi respinge e allora la copro con il primo colore che mi capita, poi la ricopro con un altro, quindi la scartavetro tutta fino a renderla perfettamente liscia. Posso impiegare anche due settimane per coprirla di colore e scartavetrarla. Poi aggiungo altro colore e mi siedo, aspetto che il colore mi dica cosa fare. Solo quando ricevo l’ispirazione, agisco. Fino a poco tempo fa, ma spesso ancora oggi comincio con una macchia nera, un gesto quasi di tragedia, che mi serve per iniziare a costruire qualcosa. Ed in ultimo è sempre il quadro che mi comunica di fermarmi, di non toccarlo più, di passare ad un altro, in un dialogo continuo tra me e lo spazio rappresentato dalla tela. Un dialogo sottile che non si può esprime a parole perché avviene a livello intuitivo. Un dialogo, del quale sono molto geloso, che mi piace vivere in solitudine, chiuso nello studio, senza essere disturbato da nessuno.

Che significato attribuisce al dipingere?
Premesso che sono favorevole a tutte le forme di arte contemporanea, perchè espressioni di linguaggi diversi volti a chiarire di più cosa non sia il dipingere, la pittura per me è l’intuizione dello spazio, mentre la cromatica svolge un ruolo funzionale finalizzato ad acchiappare, nel senso di delimitare, lo spazio che si crea tra lo spettatore ed il dipinto, per entrarvi dentro e possederlo, e sto parlando di uno spazio che non è prospettico e tangibile, ma astratto.
In sostanza, vivo la pittura come un percorso di conoscenza che va oltre la forma, una ricerca di trascendenza verso altri stati di coscienza oltre quelli che viviamo più coscientemente quali il sonno, la veglia e il sogno, con l’obiettivo di acquisirne consapevolezza. La pittura rappresenta la mia fonte di meditazione. Infatti, pur praticando meditazione da circa trenta anni, non attingo alla meditazione per dipingere, ma alla pittura per meditare.

Come nasce Alberto Parres pittore? Mi parli di come si è avvicinato alla pittura e all’astrazione in particolare.
La pittura è dentro di me da sempre, anche se la scelta di praticare l’astrazione è maturata col tempo. Durante il periodo degli studi in accademia ho cominciato con il figurativo e quasi subito sono passato all’astratto, alternando entrambe le forme di rappresentazione. Solo verso la fine degli anni ’80 ho deciso consapevolmente di diventare un pittore astratto, cominciando a dipingere con il nero nella ricerca di una dimensione più profonda. Un percorso durato sei anni dedicati ad approfondire soltanto il nero sul nero. La svolta è avvenuta con la serie che ho chiamato “Fior di pelle”, manifestazione di un espressionismo astratto simboleggiante la pelle delle pittura, che ha segnato l’abbandono del nero e l’inserimento del colore. In realtà si è trattata di una scelta obbligata, perché il lavoro con il nero è stato impegnativo e difficile ed ha messo a dura prova la mia stabilità psichica, avevo un bisogno fisico di tornare al colore.

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Perché ha scelto di partire dal nero?
Il nero è il colore assoluto, nella realtà non esiste, è la tonalità più alta del viola, dentro ci sono tutti i colori. Inizialmente i neri li creavo io stesso mischiando i colori, poi ho cominciato a comprarli, neri puri che combinavo per cercare sovrapposizioni sempre diverse. Ma c’è di più. La scelta del nero è legata anche ad un’esperienza indimenticabile vissuta durante l’infanzia a Tangeri, in Marocco, dove sono nato. Un giorno mia madre mi portò a far visita ad un suo amico, un cantante inglese, che viveva in una casa tutta nera, dove non c’era un solo oggetto colorato, l’unica fonte di colore era la luce che entrava dalla finestra. Un evento scioccante che, ripensandoci a distanza di anni, sono convinto mi abbia influenzato a livello subliminale.

Tangeri, Siviglia, Parigi, Roma. Il suo percorso artistico è passato attraverso queste importanti città. Come le origini africane hanno influito sul suo fare pittorico e quanto la cultura europea ha contribuito a sua volta?
Tangeri mi ha influenzato molto, è la città della mia infanzia dove sono nato e vissuto fino a diciasette anni, però mi sento europeo a tutti gli effetti: provengo da una famiglia spagnola, sebbene mia madre avesse origini franco-tedesche, vivevo in un quartiere francese, a casa si parlava spagnolo francese o inglese ed ho studiato in una scuola americana. Pur stando in Marocco avevamo un’identità ed una cultura europea quando ancora non esisteva l’Europa unita. A Siviglia, dove ho cominciato a studiare belle arti, sono rimasto solo un anno, era il periodo franchista e l’atmosfera era molto chiusa. Allora deciso di assecondare lo spirito europeo iniziando a viaggiare. In poco tempo ho attraversato parte dell’Europa: prima con un giro del mediterraneo in barca a vela, poi la Svizzera, Amsterdam dove ho cominciato a dipingere come assistente di una pittrice, Parigi dove ho frequentato l’accademia per un anno e infine Roma, qui ho completato gli studi e scelto di restare.

Ha partecipato a numerose mostre e collabora con diverse gallerie, chi per primo ha creduto in lei?
A Roma ho avuto la fortuna di incontrare Francesco Soligo, con il quale è nato un sodalizio durato fino al 1999, l’anno della sua scomparsa. Francesco è stato tutto: gallerista, protettore, amico, padre. Abbiamo iniziato a collaborare nel 1981 appena terminata l’accademia e mi ha catapultato in galleria dove sono entrato in contatto con grandi artisti come Tano Festa, Mario Schifano, Franco Angeli, Turcato, Burattoni e tanti altri. Soligo è stato bravo, credeva nell’artista, mi ha seguito, ha assecondato tutte le mie scelte, lasciandomi libero di sperimentare e sostenendomi con l’organizzazione di mostre. Dopo la sua morte ho deciso di diventare un cane sciolto, una situazione completamente nuova con la quale ho voluto misurarmi. Una nuova tappa della mia carriera professionale che combina libertà e imprenditorialità.

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Chi sono stati i suoi modelli di riferimento in questi anni?
Il grande amore da sempre è Piero della Francesca, colui che mi ha insegnato più di tutti, un pittore astratto che lavorava sulla forma e sul colore. Altri artisti che prendo a modello sono coloro con i quali ho una vicinanza cerebrale. Ad esempio Joseph Kosuth, il padre dell’arte concettuale, che non ama la pittura, ma fa l’anti pittura, grazie a lui oggi fare un dipinto significa avere un perché, è stato capace di rivoluzionare la visione dell’immagine, la visione dell’oggetto e la visione della sua definizione. Amo anche a Jannis Kounellis, dell’arte povera, che se pur non tocca il pennello, considero un grande pittore. E ancora Gianni Dessì, un pittore contemporaneo, che ammiro pur non conoscendolo personalmente. Poi ci sono americani, inglesi, anche se i pittori che più preferisco sono i tedeschi.

Per tornare alla sua pittura, nelle opere recenti il colore è associato a piccoli dettagli. Dove indirizza oggi la ricerca artistica?
Di recente ho ripreso alcune intuizioni che avevo avuto con lo studio del nero sul nero, un lavoro di recupero del nero nel colore e delle superfici completamente lisce nel tentativo di portare la mia esperienza dell’astrazione informale verso un astrattismo più rigoroso nel quale ora mi riconosco. Alla stratificazione cromatica ho aggiunto i segni, che solo apparentemente sono liberi, quadratini collocati sulla tela. Alcuni richiamano un colore che c’è dietro nel profondo della stratificazione, altri sono solo un fatto di equilibrio spaziale e rievocano il rapporto tra ordine e disordine nel tentativo di trovare l’equilibrio. A volte ho bisogno del segno e a volte no, non si tratta di un capriccio, ma di una necessità fisica. Più passa il tempo e più l’intervento sta diventando più dolce, è come se stessi entrando in un’astrazione lirica, una definizione forse gia superata, ma ancora valida per capire e comprendere la pittura senza fine.

Un consiglio per chi decide oggi di dedicarsi all’arte, in qualunque forma essa possa esprimersi?
Decisa la propria strada, bisogna muoversi con spirito di generosità. Buttarsi a capo fitto, con cuore, cervello e pancia, ovvero passione combinata a fare strategia a tutto campo. Si può decidere di non fare pubbliche relazioni, di non frequentare i salotti, ma questo è un fatto caratteriale e non vuol dire non dare il massimo. Personalmente mi ispiro al principio “Tanto dai, tanto avrai. Poco dai, poco avrai” che vale per l’arte come per la vita.